È brillante il saggio di Bérengère Viennot, La lingua di Trump (ed. Einaudi, pagg.104, euro 14). Servendosi di una narrazione coinvolgente e ironica, conduce un’interessante analisi linguistica dell’attuale presidente degli Stati Uniti. Che il suo modo di comunicare sia strategicamente studiato o frutto di spontaneità è di secondaria importanza rispetto alla complessità del personaggio e delle implicazioni politiche che ne derivano. Traduttrice e docente, l’Autrice si è a lungo occupata di comunicazione politica e di tradurre Donald Trump. Più volte si sofferma sul mestiere del traduttore, specialmente lì dove una sfumatura di senso può incidere radicalmente nella rappresentazione del parlante nell’immaginario collettivo. Come in ambito teatrale il sottotesto riveste un ruolo prezioso per l’interpretazione del testo, conoscere il sistema di pensiero di qualcuno è imprescindibile per veicolare in una lingua diversa il messaggio autentico, la reale intenzione comunicativa. Per tale ragione una traduzione letterale non può mai essere rispettosa dell’autenticità del messaggio e tale lavoro sottende sempre anche un’interpretazione. Tale mestiere è particolarmente difficile nel contesto giornalistico e politico. Un esempio portato da Viennot è l’uso che Trump fa dell’espressione shithole countries (paesi di merda), in totale dissonanza con un’etichetta diplomatica seguita da generazioni in tutti i paesi del mondo. Il traduttore contribuisce a filtrare presso un altro paese la personalità del parlante e può deciderne le sorti presso l’opinione pubblica.
È tale l’acume e la perizia dell’analisi linguistica che da esse ne viene fuori un’analisi psicologica della personalità di Trump (sino a un’ipotesi psichiatrica che molto potrebbe far luce sui come e i perché di quest’uomo: disturbo dell’attenzione e dislessia, con parecchie argomentazioni a supporto, dove ciò che pesa maggiormente è il rifiuto e il disconoscimento di un limite di per sé non invalidante). Sono l’ignoranza e il compiacimento di essa che fanno la differenza, a cui seguono malafede e arroganza.
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Nel corso della lettura mi veniva in mente una scena del film Benvenuto Presidente, quando Claudio Bisio in riunione diplomatica con i capi di stato ha un’insolita uscita che lascia di stucco i presenti (salvo il tempestivo interprete): “Se parlo a cazzo, ditelo!”. Lì il traduttore non si è peritato di filtrare! È chiaramente una citazione ludica e il Giuseppe Garibaldi del film non è paragonabile al protagonista di questo saggio, se non per l’inadeguatezza formale alla carica e il naif, ma è parallelismo che aiuta a scorgere il ridicolo. La rappresentazione distorta e caricaturale della crisi di un modello politico proprio dei paesi civili, tema abbastanza diffuso in ambito cinematografico, è questa volta vittima del detto che recita: la realtà supera la finzione.
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Giulia Letizia Sottile