… a proposito di “Da Psyco a Il lato positivo” di Martina Passanisi, in corso di pubblicazione ….

(…) Abbiamo appreso, conoscendo Martina, come la sua passione risalga ai tempi del liceo e la scelta di questo tema sia stata indotta dall’esigenza di connettere i suoi due mondi: l’amore per il cinema è quello per la psicologia unitamente alla convinzione dell’enorme potenziale insito nel primo in funzione della seconda. Il progetto di Martina Passanisi è tanto più interessante quanto è scarsa la letteratura in materia a fronte di un ormai diffuso ricorso ai film come strumento di intervento nei più disparati settori e con i più diversi obiettivi. Si è concordi nel riconoscerne l’utilità ma poco si sa sui perché. Da questo punto di vista la scelta di rendere la sua tesi di laurea un libro è coraggiosa. Da Psycho a Il lato positivo può essere visto come un compendio che fornisce una linea guida per chi volesse addentrarsi nella conoscenza del cinema e delle tematiche psicologiche e formarsi una cultura cinematografica su specifici temi.

(…) Un’altra nota di merito di questo libro è quella di aver dato voce a una perplessità diffusa tra gli addetti ai lavori (psicologi, psicoterapeuti, psichiatri) circa i frequenti errori sparsi qua e là nella caratterizzazione della figura dello “psi”, vittima, insieme alla patologia mentale e ai luoghi di cura, di stereotipizzazione e approssimazioni che scaturiscono da un immaginario collettivo, allora come ora, che mostra di non aver capito davvero cosa sia e cosa faccia questo specialista. Si passa, da un lato, da una concezione delirante di onnipotenza, come se lo psicologo fosse un supereroe che sempre e comunque risolve il problema quasi con un tocco di magia (l’occhio più critico lo noterà nel personaggio interpretato da Ingrid Bergman in Io ti salverò, film di Hitchcock che resta comunque un caposaldo cinematografico importante); dall’altro, alla ridicolizzazione e squalifica, pur non malevole, legittimate magari dai fini umoristici (un umorismo che fa sorridere anche noi), (mi vengono in mente Barbara Streisand in Mi presenti i tuoi? e Meryl Streep in Prime, ma anche, più sul tragicomico, i casi italiani della psicoanalista interpretata da Kasia Smutniak in Perfetti sconosciuti e il Marco Giallini di Tutta colpa di Freud), per non ripetere i già numerosi esempi portati da Martina Passanisi. L’Autrice, infatti, dedica un intero paragrafo agli stereotipi sullo psicoterapeuta nel cinema, individuando vere e proprie categorie: lo “psichiatra schernito”, quello “buono”, quello “cattivo”, lo “psichiatra oracolo”, il “meraviglioso” e infine una categoria che non può che starci a cuore, quella al femminile, che vede una sfilata di donne facilmente abbindolabili e non sempre impeccabili deontologicamente, che finiscono per farsi ingannare dal paziente, per innamorarsi di lui o entrambe le cose. Ai casi elencati dall’Autrice aggiungo quello dell’intrigante poliziesco The Departed – Il bene e il male.

È interessante poi notare come la stragrande maggioranza dei film citati sia tratta da romanzi. Questo a dimostrazione di come i confini tra le arti non siano sempre netti e soprattutto di come sia insistente trasversalmente il potere della narrazione come processo mentale e come strumento trasformativo. Lo si riscontra nella biblioterapia, nella pratica della scrittura creativa o di quella espressiva (da qualcuno chiamata emozionale o terapeutica), nello psicodramma, ma anche semplicemente nei colloqui con uno specialista. (…) Ai fini del discorso di Martina Passanisi, non è male però ricordare come già le altre arti nascevano ancor prima della branca medica, utilizzate per fini terapeutici (si pensi al potere ipnotico della musica), e come nei secoli con l’impostazione positivista le discipline scientifiche e quelle artistiche si siano sempre più separate e distanziate, dimenticandosi le une delle altre. Eppure erano già conosciute le enormi potenzialità della rappresentazione visiva delle storie per fini educativi (come nell’antica Grecia), preventive, riabilitative, terapeutiche. (…)

Relativamente ai benefici di questo strumento, le neuroscienze ci dicono intanto di come pensare attraverso immagini richieda una attivazione cerebrale che ci consente di integrare funzioni spesso scisse. Sul piano fisiologico si ha avuto conferma di come la visione di un film vada a modificare parametri come battito cardiaco, ritmo respiratorio, tono muscolare, intensità emozionale, percezione del senso del tempo e dello spazio, velocità del pensiero, senso di identità. Si aggiungono la riformulazione di modelli di comportamento e schemi mentali, il monitoraggio delle emozioni in relazione agli elementi che ne sono la causa, il problem solving. Tutto ciò sarebbe facilitato da quella particolare condizione di deprivazione sensoriale che pone lo spettatore in una condizione di trans, quello che Pancheri chiama “veglia sognante” (…).

Per tornare ai punti di forza di questo libro di Martina Passanisi, lucido e critico è l’interrogativo circa la natura del rapporto tra cinema e società. In sintesi: i contenuti filmici sono l’espressione dell’immaginario collettivo o l’immaginario collettivo è plasmato dai contenuti filmici? È plausibile un rapporto di interdipendenza, in cui l’uomo ha però bisogno di essere educato attraverso la comoda e semplificata/semplificante ricezione di categorie preimpostate per l’interpretazione del mondo. È forse per questo che è così difficile disinnestare gli stereotipi, anche servendosi del cinema.

Da Psycho a Il lato positivo è davvero una guida nel mondo del cinema “psicologico” anche per il vastissimo repertorio di titoli proposti. Tra i più belli citati o analizzati: Si può fare!, Shutter island, A beautiful mind, La fabbrica di cioccolato (di cui l’Autrice analizza il remake di Tim Burton), Ragazze interrotte, Qualcosa è cambiato, The Danish girl, Mi chiamo Sam, Still Alice, Quasi Amici. Intelligente e ben costruita è la scheda dedicata a Il gabinetto del dottor Caligari, che dà spazio anche al dibattito circa il libero arbitrio dei sonnambuli e a come la scienza si è espressa nella storia sino a oggi; ma altrettanto si potrebbe dire della scheda dedicata a Still Alice, che mostra come il film ripercorra bene tutte le fasi neurodegenerative del morbo di Alzheimer; mirabile è anche la critica di Into the Wild, che scende in profondità nel caso di sindrome di Wanderlust ma ci fornisce anche le giuste considerazioni per una diagnosi differenziale e per individuare il confine tra normale e patologico. Into the Wild, al di là dell’etichettamento diagnostico, è forse uno dei film che più si avvicinano al vissuto dell’uomo contemporaneo, sempre più solo (come ci dice Andreoli) e travolto da una realtà spesso insostenibile, indotto a sperimentare varie forme di fuga. La storia di McCandless non è che una di queste. Bella è anche la scheda dedicata a un film spesso frainteso, I sogni segreti di Walter Mitty, anche questo, seppur caricaturato nella sua rappresentazione, molto vicino all’uomo contemporaneo, come ci spiega l’Autrice stessa.

(…) Ma Martina Passanisi ci spinge a guardare dove – in veste di spettatori spassionati – non ci eravamo mai soffermati più di tanto, su significati e valenze che ci erano sfuggite, come nel caso di cartoni animati, classici e contemporanei, utilizzabili per la crescita personale di grandi e piccoli.  Ci racconta poi da dove nasce la film therapy senza fermarsi con le proposte cinematografiche. Mi è molto piaciuta l’attenzione particolare riservata all’adolescenza, nel percorrere i titoli adatti a ogni fase del ciclo di vita. L’Autrice consiglia Noi siamo infinito e la recentissima serie Tredici (a proposito del delicatissimo tema del bullismo nelle scuole),parecchio polemizzata anche dai colleghi psicologi ma a mio avviso istruttiva, sebbene sia preventivamente opportuno che vada filtrata dal dialogo (tra i giovanissimi spettatori e/o tra questi e le figure adulte di riferimento), proprio per la delicatezza dei temi e il grande impatto emotivo che hanno diverse scene su chi guarda, persino sullo spettatore psicologicamente più stabile.

(…) mi avvio alla conclusione prendendo spunto proprio dall’ultimo film analizzato in questo libro, Cloud Atlas, perché il motto “Tutto è connesso” chiama in causa un altro libro, che mi è capitato più volte di citare per la sua ricchezza di temi, contenuti, spunti, e per la sua accuratezza e serietà. Si tratta del portentoso saggio dello psicoterapeuta Paolo Anile, Come sopra così sotto, che, tra le altre cose, si fa paladino dell’integrazione tra i vari ambiti disciplinari, da quelli considerati più di pertinenza scientifica a quelli artistici, integrazione dalla quale scaturisce un valore aggiunto traducibile anche in termini pratici. Questo lavoro è un esempio di integrazione tra arte e scienza, qui tra cinema e psicologia, a mostrarci come, ancora una volta, “tutto è connesso”, “tutto è uno”.

Giulia Sottile


La versione integrale di questo saggio verrà pubblicata in post-fazione nel volume edito…