(Santo Calì, Senzio Mazza, Pippo Mazza // Tonino Guerra, Raffaello Baldini, Nino Pedretti)

       De minimis non curatur, infatti non è sempre occasione gratificante occuparsi delle piccolezze. Pronta l’obiezione : se non ci fossero le occasioni piccole non ci sarebbero quelle grandi. E ci siamo: infatti di questo passo, si resta impaniati nella retorica.

        Non si conosce  l’autore del postulato di giurisprudenza medievale “de minimis non curat pretor”, di cui abbiamo parodiato, cambiando modo e tempo del verbo. La citazione ab initio, per rispetto verso i lettori che dispongono di tempi limitati, e possano decidere a priori se procedere, o utilizzare più utilmente il loro impegno.

        L’argomento centrale è qui di pertinenza poetico-linguistica e affinità di meriti,  coinvolge nomi del presente e del passato prossimo italiano, con riferimento ai rispettivi luoghi di nascita: Sant’Arcangelo di Romagna (Forlì) e Linguaglossa in Sicilia (Catania). Poiché la divagazione è quasi totalmente ambientata tra gli anni Sessanta/ Settanta del secolo scorso ricorriamo a una pubblicazione del 1964 per riportare le schede d’identità delle due città citate, redatte in epoca coeva a quanto sarà da noi riferito alla cronaca che si è fatta storia relativa a personaggi dei due centri, esattamente poeti dei rispettivi dialetti.

        Su Linguaglossa troviamo: Centro agricolo, 4.660 abitanti, sulle pendici Nor-Est dell’Etna. Vigneti, nocciole. Industria enologica e del legno. Per Sant’Arcangelo di Romagna leggiamo: Centro agricolo e industriale, 13.200 abitanti, situato ai margini della pianura romagnola sul f. Marecchia. Mulini, cementifici, conservifici. Sul monte Giove, rocca malatestiana con torri poligonali.

      Evidente la differenza della popolazione registrata all’anagrafe dei due comuni in quegli anni: ben novemila cinquecento in più a favore di Sant’Argangelo. Ma senza escludere che Linguaglossa, proprio in quegli anni, pativa una forte uscita di emigranti, sia verso il Nord-Italia e l’Europa, sia verso le Americhe. Ma non è di emigrazione che ci accingiamo a parlare, ma di poeti dialettali. E anche per loro con riferimenti al momento sopra ripetuto degli anni 1960-I970, quando i sant’argangelesi Tonino Guerra, Raffaello Baldini e Nino Pedretti venivano meritatamente  osannati da tutte le cronache letterarie italiane, per le belle poesie in dialetto romagnolo che scrivevano e pubblicavano. Dei tre il più noto era (è) Tonino Guerra, anche perché più attivo extra moenia e per le sue molteplici relazioni culturali, compresa la collaborazione con Federico Fellini.      

       In quegli stessi anni anche a Linguaglossa trionfava una triade di eccellenti poeti del dialetto siciliano etneo. Santo Calì,  Senzio Mazza, Pippo Mazza. Di loro ogni tanto si occupavano, fugacemente e approssimativamente, le cronache culturali locali. Per Calì, docente nelle Scuole medie statali, poeta della contestazione, capofila dell’Antigruppo,(solida consorteria di poeti locali di qualche valore, palermitani, nisseni, trapanesi, siracusani e catanesi, operante in Sicilia, in odio e contestazione contro l’affermazione dei lavori del Gruppo ’63, – donde il nome Antigruppo – lavori  ai quali non erano stati invitati a partecipare). Nume stimolatore un effervescente tipografo catanese dotto, che vantava più lauree, Vincenzo De Maria, scrittore che digitava direttamente sulla tastiera della linotype aziendale i propri interventi di saggistica, e altre estemporanee ispirazioni che trasformava in altrettanto estemporanee pagine di libri. Infatti la lynotipe esitava le composizioni pronte per essere tecnicamente disposte per la stampa tipografica.

        Calì in quegli anni aveva come punto di riferimento nazionale il critico letterario Giuliano Manacorda, e godeva di ottima stima presso gli ambienti di sinistra della provincia etnea come degli “addetti ai lavori” dell’intera regione.

      Meno noto l’allora giovane universitario Senzio Mazza, il quale  ricorreva alle  occasioni di confronti partecipando a premi seri, evitando accuratamente di impantanarsi in occasioni del cosiddetto“sottobosco”. Superfluo evidenziare, perché abbastanza noto, quanto predominio avesse in quegli anni la sinistra politica in materia di letteratura e di arte. I poeti componenti dell’Antigruppo sopracitato, di Calì e De Maria, non accettavano di poter ammetter che anche un non comunista o (al limite) non socialista, come Senzio Mazza potesse scrivere poesie. Per loro, Senzio, era un “fetido democristiano” (Sic!), punto e basta. Infatti, quando Senzio Mazza vinse un importante premio a Bergamo per avere scritto una poesia dedicata alle vittime partigiane  e alle tragiche violenze dei nazifascisti, Santo Calì, per complimentarsi gli fece giungere un messaggio molto significativo: Cosa stai a scrivere di partigiani, la prossima volta scrivi una poesia per Peppa la cannoniera. Un modo elegante quanto subdolo per togliere ogni valore all’importante premio che era stato conferito al poeta concittadino, reo di essere democristiano.

      E c’era ancora un terzo poeta a Linguaglossa in quegli anni (sicuramente ve ne saranno stati altri che, da meno fortunati o più prudenti scrivevano per il cassetto o, comunque, non si esibivano nei recital e non concorrevano ai premi letterari che, proprio in quegli anni, fiorivano sotto tutti i campanili d’Italia) era il fratello minore di Senzio, e aveva già, da diciottenne, un proprio stile e un proprio vocabolario etneo genuino e impetuoso da proporre. E leggeva bene, alla Gassman, Pippo Mazza. Infatti veniva chiamato per leggere le sue poesie in dialetto e quelle di altri poeti catanesi del passato prossimo, come Nino Martoglio in dialetto e Giuseppe Villaroel in lingua della comunicazione nazionale.

       Fu scoperto in quegli anni il poetare di Pippo, la promessa che rappresentavano i suoi poemetti in una lingua di autentico codice popolare, distinguibile da quello del fratello e altrettanto potente nella sua impeccabile autenticità. E se è pur vero che si è poeti anche per avere scritto un solo bel verso, di Pippo Mazza, onestà vuole che  sia almeno da celebrare, di quegli anni suoi giovanili, il poemetto di centodieci versi, intitolato Li me’ vecchi, nel quale in tre momenti armonicamente collegati a rendere coerente ed efficace i contenuti, fa rivisitare la realtà di una comunità intera colta nei suoi valori e nelle difficoltà come nel coraggio e negli ambienti della vita di ogni giorno,con un metaforico amarcord che avrebbe trovato nobile confronto, da lì a qualche decennio dopo, nel Filò di Andrea Zanzotto, per genuina felicità di resa e per vocabolario. Un vocabolario che aggiunge allo stile, ai contenuti , alla metrica e al carisma di comunicare fino a procurare spontanee empatie nei lettori, un prezioso serbatoio di locuzioni e parole del più genuino codice etneo-linguaglossese.

2. Cosa dire dei tre grandi poeti romagnoli di quegli anni? Cosa aggiungere alla loro fama e ai loro meriti, se non un ulteriore applauso, anche per tutta una scuola che è seguita e splendidamente continua con altri eccellenti nomi di poeti e poetesse, che di Guerra, Baldini e Pedretti sono continuatori a vele spiegate, in Santa’Arcangelo, come altrettanti a Linguaglossa?

       Dire che la Sicilia non fa che confermare di essere isola? Anche nei momenti in cui è voce dell’universo umano? Probabilmente dovremmo dirlo e chiosarlo.  Ed è anche per questa ragione che ci fermiamo qui. Perché a questo punto la divagazione è finita. Dilatarne i resoconti con ulteriori riflessioni toglierebbe significato al cenno, che non solo riguarda piccolezze d’un genere che non può suscitare interesse, ma anche perché proprio sulla parte che viene taciuta si dovrebbe aprire un capitolo da intitolare alla probabatio diabolica dello stesso giure latino antecedente rispetto a quello medievale del disinteresse del pretore per le piccole faccende.

        Il lettore che avrà scelto di utilizzare qualche momento del proprio tempo mediterà sulla “morale” di questa divagazione. Probabilmente si chiederà se, e cosa è cambiato in Sicilia, rispetto agli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, quando nel piccolo centro etneo vivevano e scrivevano poesie in dialetto locale tre poeti sconosciuti, mentre in altra regione d’Italia, in un centro non grandissimo, vivevano e operano tre poeti, del dialetto anche loro, notissimi, celebrati, etc etc. Auspicabilmente si incuriosirà, il caro lettore, specialmente se siciliano, infatti potrà, anzitutto come tale, dubitare a discapito, ovviamente, dei tre di Linguaglossa. O andrà oltre, e fino a indignarsi, come noi a fronte di certe grandi piccolezze, tuttavia fatali, tuttavia collegati alla stessa realtà indigena, tenace nel DNA degli isolani.

                                                                                                           mariograsso