Dove tracciare una linea di demarcazione tra cultura e politica? Ma le due cose sono davvero inscindibili? Se l’identità di un popolo si costituisce attraverso la sua cultura, non è forse anche vero che la politica e una delle sue modalità espressive? Basta guardare gli orientamenti dei governi attuali, in tutti i Paesi, non sono forse il risultato della storia di un popolo? Quando si parla di storia non si parla solo di fatti, anzi, si parla principalmente di quella che Marx chiamava “sovrastruttura”: l’arte, la letteratura, la musica, la religione, la lingua. Mi accorgo solo adesso di aver citato un autore che benissimo si coniuga con la tematica nella quale stiamo per addentrarci. Lo spunto di questa mia riflessione deriva, infatti, da un’area geografica dove la politica vigente più si avvicina a quella forma originaria del pensiero comunista che risiede proprio nelle teorizzazioni dell’Autore tedesco, con un po’ d’imbarazzo per l’odierna Germania – madre patria – in cui il verbo va verso tutt’altra direzione.

La controversia qui è pero di portata mondiale dal momento che sotto il mirino vi è il mondo. Dall’altro lato, la grande potenza emergente, oggi la prima sul mercato internazione, che è la Cina di Xi Jinping (e va bene, Repubblica Popolare Cinese). Il boom economico che negli ultimi anni ha caratterizzato l’economia cinese non è di certo intenzionato ad accontentarsi, come in un nuovo imperialismo mascherato dal capitalismo. Ma siamo in questa sede lontani dal fare politica o analisi sociologica. In primis l’oggetto della mia attenzione è la cultura. Sembrerebbe infatti che gli investimenti imprenditoriali – materiali o virtuali – non siano i soli a popolare la speculazione su ogni angolo della Terra, anche la cultura sarebbe stata coinvolta attraverso una sempre più pressante propaganda che agisce però per vie traverse.

La propaganda politica attraverso la cultura non è una novità, basterebbe andare a leggere un po’ di storia e si trova che nel V secolo a. C. l’agone tragico non era certo opera di un’entità come il teatro Coppola di Catania. I personaggi pubblici, i più illustri e gli interessati a divenirlo sempre più, amavano essere amati dalla stragrande maggioranza della gente, che poi era la “massa” (o il popolo). Casualmente questi uomini finivano poi per candidarsi in politica e – altrettanto casualmente – salivano al governo. Finanziamenti qua e là e gloria. Leggendo poi nella letteratura, una delle massime espressioni della cultura di un popolo, si trova – in quella greca guarda caso – una testimonianza dell’epoca ellenistica (III-II secolo a. C.) negli idilli di Teocrito (che sembrerebbe ispirarsi nelle descrizioni paesaggistiche di impronta bucolica alle campagne siracusane della Sicilia), negli inni e nei mimi urbani. In particolare a quest’ultimo genere appartiene la sua opera Le Siracusane, che sembra voler comunicare proprio quanto la stessa storia ci racconta, dalla nascita delle prime civiltà sedentarie a Luigi XIV, da Benito Mussolini all’intero pianeta Terra del XXI secolo. Il titolo originario dell’opera sarebbe Adoniazusai (Donne alla festa di Adone) e mostrerebbe uno scorcio popolare in cui due donne siracusane trapiantate ad Alessandria d’Egitto partecipano ad una festa religiosa in onore del dio Adone. Processioni e doni per strade e piazze caratterizzano questo evento che viene spettacolarizzato dai finanziamenti – ma guardate un po’! – da Tolemeo Filadelfo, l’allora sovrano d’Egitto. Arazzi, cibo gratis, la conclusione della processione alla reggia del sovrano, il cui monumentalismo architettonico non era dovuto ad un semplice gusto estetico. L’intero assetto urbano era progettato in modo tale da far convergere ogni strada al Palazzo.

Tutto questo ci ricorda molto tante altre “sponsorizzazioni” verificatesi nella storia occidentale, ma non solo. Torniamo infatti all’Oriente e ci accorgiamo che si trovano ad essere molto più ambiziosi dei nostri dittatori storici. Se Mussolini mirava ad ingraziarsi il popolo italiano – e non solo lui, direbbe qualcuno – la Cina, tradizionalmente autarchica, ormai da moltissimi anni ha superato quell’autarchia che era proprio dell’Impero, e non solo sul piano economico. Si espande anche al livello culturale. Lo testimoniano entità culturali oggi molto presenti sul territorio internazione, gli Istituti Confucio (IC), presenti in una buona parte delle Università di tutti i Paesi, creati dal Ministero dell’Istruzione Cinese per la diffusione della lingua e della cultura cinese e gestiti dallo Hanban, istituzione governativa diretta dagli stessi componenti dei Ministeri. In Italia ce n’è uno a Roma, Milano, Firenze, Bologna, Napoli, Venezia, Pisa, Padova, Macerata e Torino. Non sarebbe di certo una iniziativa deplorevole, stando al grande patrimonio culturale cinese che per molto versi dovrebbe fungere da esempio per l’Occidente – né dovrebbe stupire in tempi in cui la globalizzazione fa questo e altro – ma stando alla modalità con cui questi Istituti vengono gestiti … ci sarebbe da fare tante riflessioni proprio sul rapporto tra cultura e politica, sulla libertà dello stesso pensiero, la cui sopravvivenza oggi è messa a repentaglio. Si potrebbe pensare ad una esagerazione, ma, se si ascoltassero i diversi punti di vista delle stesse autorità cinesi che presiedono tali istituzioni, si inizierebbe a guardare sotto altra luce ciò che, di fatto, diviene una vera e propria “garanzia di fedeltà”  e “lascia passare nella carriera professionale” come un tempo lo era l’iscrizione al partito fascista italiano con la consegna di una tessera da esporre anche al panificio. Lo testimoniano quelle voci che hanno rifiutato di accettare la nascita di un IC all’interno del proprio Ateneo perché, nonostante le ingenti risorse finanziarie che il governo di Pechino concede per la ricerca e i molteplici investimenti infrastrutturali e non, proprio lo stesso dispensatore pretenderebbe poi di porre un filtro agli stessi programmi didattici. In molti casi si parla di censura e di distorsioni da parte della autorità governative che mirano invece a protendere i propri tentacoli anche attraverso un altro veicolo, proprio quello più affascinante e accattivante dell’arte e della letteratura. Soprattutto ad essere prediletti da Pechino sarebbero i classici del pensiero cinese come gli scritti confuciani, taoisti e buddhisti, salvo qualche piccola omissione su tematiche scottanti come la questione del Tibet, del Dalai Lama, Taiwan, la protesta di Tienanmen del 1989 fino agli odierni disordini ad Hong Kong. Al punto che è vietata l’organizzazione di qualsiasi dibattito su queste tematiche anche attraverso seminari o conferenze. Qui Tolemeo Filadelfo non finanzia solo i festeggiamenti folkloristici, intimando subliminalmente una consonanza tra il suo personaggio e quello di Adone, ma va oltre.

Le Università che si sono rifiutate di aprire al proprio interno un IC hanno accusato le altre di “sudditanza psicologica” e “autocensura”. Chicago e Pennsylvania hanno chiuso i propri IC di recente e il Portogallo si è rivelato profondamente indignato per un gesto della direttrice dello Hanban, Xu Lin, che avrebbe ritirato i programmi redatti in occasione di un convegno per ridimensionarli e “correggerli”, smascherando apertamente il reale intento del Ministero nella presunzione di poter trattare la cultura come fosse una merce come le altre.

Nell’Italia fascista non c’era lo Hanban ma l’Istituto L.U.C.E. (L’Unione Cinematografica Educativa), l’E.I.A.R. (Ente Italiano Audizioni Radiofoniche), il Giornale del Balilla, il Corriere dei Piccoli, etc. Tutto accentrato in un’unica mano, più o meno come lo è oggi l’Istituto Confucio. E allora torniamo alla riflessione di partenza: il Corriere dei Piccoli era espressione di cosa? Di quello che qualcuno avrebbe voluto che la gente credesse di essere … o di quello che la gente era? È un processo lungo, perché prevede lo sgretolamento della capacità di pensare, perché il pensiero è quello che fa dire “aspettate tutti, ma io non sono così!”. Si arriva invece pian piano a portare gli esseri umani, disorientati e mediaticamente bombardati, a dire “e sai che forse sono proprio questo!”. La Cina non è solo Confucio come l’Italia non è solo Roma.

 Giulia Sottile