III° e ultimo Capitolo

Céline è il Novecento“, tanto che è stato definito dal nouveau philosophe filoisraeliano Bernard-Henri Lévy come “il più grande e il più attuale degli storici del XX secolo, di cui egli è anche il sintomo e il rivelatore”. Asserzione, questa, impegnativa e intrascurabile. Ma qui non siamo solo dinnanzi ad un rappresentante/testimone/campione del passato. Si dice che la letteratura è chiaroveggenza, che gli artisti di qualsiasi campo espressivo, di qualsiasi nazionalità, dai poeti ai romanzieri, dai pittori/scultori ai musicisti/cantautori, tanto hanno predetto anche secoli prima, dal sottomarino di Verne all’atomica di Svevo. Un brivido allora ci coglie nel leggere quanto Lanuzza ci fa notare: “In un delirio visionario, [Céline] predice il ‘pericolo cinese’” anche se risulta oggi opportuno variare la profezia, aggiunge ancora Lanuzza, perché non di un potere militare si tratta bensì economico-commerciale (d’altronde il primo è detenuto dagli Stati Uniti “gendarmi del mondo” – ed ecco ancora un Lanuzza che non esita a constatare, ma mi correggo: ancor più che di constatazioni, il saggista si occupa di critici confronti). Céline è il Novecento…

 

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Ma tra irritazioni e travolgimenti emozionali non bisogna dimenticarsi di ciò che rese grande Céline, se non si considera che molti trovarono in lui, oltre che lo storico, persino il filosofo. E’ arrivato infatti il momento di passare al secondo punto della produzione letteraria che ha fatto tanto discutere, e discutere anche su questo versante, quello dello stile.

“Sconvolge l’uso medio della lingua francese usuale” scrive Stefano Lanuzza, utilizza un “linguaggio venato d’argot” e “volendo nominare i sentimenti dell’insensato e dell’inaccettabile” “lo scrittore si foggia una prosa inaudita“. A braccetto con la violenza delle storie e dei personaggi sopraggiunge infatti uno stile che scandalizza, che sconvolge per i toni da bassofondo popolare ma che funzionali sono alla trasmissione di quelle emozioni non semplici da manifestare come da spiegare, tanto meno da condividere. I confronti stilistici chiamano in causa gli italiani Stefano D’Arrigo e Carlo Emilio Gadda con le loro contaminazioni dialettali di cu attuano però rimaneggiamenti che rendono la loro prosa unica nel panorama letterario internazionale, a tal punto che di essi si può dire quanto Lanuzza stesso afferma a proposito di Céline riproponendo le parole di Caproni, che è stato tra i maggiori poeti italiani del Novecento: “una lingua italiana atta a tradurre Céline” è “ancora da inventare“. Allo stesso modo come crediamo possano essere tradotti i nostri autori nel francese, nell’inglese, nel tedesco?

Lanuzza, da vigile studioso di Letteratura comparata, chiama in causa anche James Joyce con il suo Ulisse, sebbene non per l’aspetto linguistico ma per la condivisione di quella che è stata definita “scrittura vivente” che sia in virtù dello stream of counsciousness o per lo “stile emotivo“. Emozioni anarchiche che scalciano sino a scoperchiare una pentola dalla quale escono indomabili. E’ questa la prosa di Céline, una pentola a pressione colta figuralmente nel suo momento estremo di esplosione, non potendo più tollerare il troppo che è sempre troppo. Il paragone con Hugo sopraggiunge – non può non sopraggiungere – quando dice di Céline che il suo argot rifugge dagli stereotipati adattamenti dialettali cui hanno ricorso e ricorrono molti autori francesi tra cui appunto l’autore di I miserabili, Nostre Dame de Paris e molto altro. D’altronde molti successivamente si ispirarono allo stile di Céline, tra cui il Cavanna fondatore di Charlie Hebdo. D’Arrigo e Gadda a lui si avvicinano nell’intento e nella capacità di manipolare il dialetto lontani dalla semplice contaminazione.

Tuttavia, l’ignoranza di molti dei suoi contemporanei che si ersero a giudici e a grandi critici, non riuscendo a inserire l’autore in nessuna delle categorie letterarie allora esistenti, non sostennero che aveva portato delle innovazioni alla letteratura, non sostennero che il suo fosse sperimentalismo, necessità di distinguersi da qualsiasi forma precostituita anche linguistica, dissero invece questo: “puzza di russo lontano un miglio“, dimentichi delle vicende e delle posizioni anche ideologiche dello scrittore (occasione forse in cui a ragione, questa volta, le si chiamerebbero in causa).

Il tono argotico céliniano è “liquidatore della letteratura fine a se stessa“, “persegue nuove strade conoscitive e destabilizza ogni fissità sintattico-lessicale“. Dunque alla fine s’è detto! S’è detto quanto profondamente moderno fosse il suo stile, ricorrente ad uno spezzettamento della trama narrativa, ad una sintassi frammentata. Lo si può accostare al post-futurismo, afferma Lanuzza, ma anche qui c’è un’unicità d’intenti e di stile, aspetto sul quale lo scrittore puntava costantemente a costo di essere ripetitivo ricalcandone la necessità e la peculiarità (“ci vuole unostile per scrivere“). Numerosi sono i neologismi, come “sporcaccionate“, partoriti dall’autore, contro “l’imbalsamato monolinguismo della tradizione liceale ordinaria“, proiettato, invece, verso una “lingua reinventata […] soliloquio di un Io maturato dopo Joyce e prima di Beckett […] rimembranza scritta a pezzi e strappi” ricca di “punteggiatura martellante […] distorsioni tonali, sequenze dissonanti e onomatopee […] paroliberismo futurista” “in un’atmosfera d’iperrealismo ambientale”. Si può parlare, prosegue il saggista, di “oralità pseudofuturista” pregna di “proliferanti parole in libertà”, “stilizzazioni onomatopeico-fonosimboliche”, “divertimenti fonetici, asemantici o fuggevoli pensieri che simulano stati autistici”. E’ l’ingresso del gergo fumettistico nel romanzo moderno e post-moderno con Marinetti e seguaci.

Dal momento che siamo entrati nel merito dello stile, va fatta una nota sull’eleganza espositiva di Stefano Lanuzza, che scrive: “In modo rabdomantico, procedendo per illazioni criptosaggistiche, deformazioni sociopolitiche e giudizi morali sempre opinabili, per pagine scucite da una sgretolata oralità variante in mutevole chiacchiera, lo scrittore attacca romanzieri e giornalisti…” eccetera. Dunque a riflettere sullo stile di Céline é un autore che sa di cosa parla.

 

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Nell’ultima parte del saggio, l’acuto e puntuale critico affronta con precisione storica la biografia dell’autore che si intreccia alle vicende dell’Europa, anno per anno, lasciando emergere come le vicende politiche, sociali e umane siano soprattutto qui inestricabilmente legate. “Céline è il Novecento” lo ripetiamo ancora una volta come ripetiamo quanto esso abbia in sé tutte le contraddizioni del secolo, contraddizioni che la biografa italiana di Céline, Marina Alberghini, riscontra persino fisiognomicamente in una fotografia che ritrae un Louis-Ferdinand adolescente: “La metà destra del viso ha uno sguardo duro, grintoso, da predatore, la bocca volitiva e sprezzante. L’altra metà è il volto sognante di un poeta, lo sguardo perso, dietro un orizzonte lontano“. Lanuzza, invece, scrive: “Durante la sua esistenza, lui, un buono e un empio, un sognatore e un cinico, ogni volta non è quello che sembra e resta per sempre il proprio stesso segreto, custodito in un rancore rimante con un dolore antico chiuso nell’ombra d’una offesa immedicabile, segnato da una colpa chiusa ad ogni intrusione“. Ripropone poi le parole dello stesso Céline che, nel tentativo di comprendere se stesso, racconta di un episodio, un rito a cui ha assistito in Africa, che lo ha profondamente turbato forse per l’inquietante identificazione che spontaneamente ha attuato: “si fa un cerchio con delle liane […] si poggia il cerchio a terra, si mette al centro del cerchio uno scorpione – si dà fuoco alle liane, lo scorpione si ritrova allora accerchiato, circoscritto dal fuoco, cerca immediatamente di uscire ma invano – gira rigira, va e viene ma non può uscire e allora s’immobilizza all’interno del cerchio, e pungendosi a lungo sulla corazza, si avvelena e muore”.

E’ ciò che faceva Céline. E’ ciò che faceva l’uomo del XX secolo.

GIULIA SOTTILE         (FINE)