PUBBLICHIAMO IL PRIMO CAPITOLO DELL’ANALISI DI GIULIA SOTTILE SVOLTA SUL SAGGIO CRITICO DI STEFANO LANUZZA A PROPOSITO DI CELINE – LE ALTRE DUE PARTI DELLO STESSO STUDIO DELLA SOTTILE SARANNO INSERITE IN RETE IL 27 E IL 30 DEL CORRENTE MESE DI MARZO
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La cavalcata delle Emozioni tra l’ideologia e la questione dello stile
a proposito di Céline della libertà di Stefano Lanuzza
Da dove iniziare nel vortice delle emozioni controverse che la lettura di quest’opera mi ha provocato? Céline della libertà. Vita, lingua e stile di un “maledetto” (Ed. Stampa Alternativa), dellìeminete critico e storico della letteratura Stefano Lanuzza, che non ha certo bisogno di presentazioni. Di presentazione si può invece parlare se considero la tipologia di lettore che credo di essere, accostandomi alla presentazione che Lanuzza svolge di Louis-Ferdinand-Auguste Destouches, nome d’arte Céline.
Rapisce la lettura del saggio del saggista fiorentino per la modalità con cui pian piano si addentra nel mondo di una personalità quanto mai complessa, e letteraria e umana, non semplice da trattare perché non semplice da comprendere! Céline era un maledetto! Non era fatto per essere amato: “Vuoi davvero leggerlo? Preparati a odiarlo!”, avverte lLanuzza in altra sua opera (Maledetto Céline. Un manuale del caos).
La complessità deriva anche dalla difficoltà di catalogazione all’interno di un circoscritto/circoscrivibile genere letterario. Si può parlare di Letteratura maledetta? Se proviamo a mettere a confronto il nostro personaggio (che poi tale è non solo nella nostra trattazione ma anche nella sua produzione artistica, tenendo conto dell’intenso autobiografismo) con i colleghi – non solo francesi, come Hugo stesso – troviamo discrepanze. Se poi proviamo a confrontarlo con i futuristi per via dell’aspetto più prettamente stilistico anche qui troviamo che Céline non può essere paragonato a niente e nessuno. “Uno come Céline varca gli steccati e non può stare dove lo metti […] è una mina vagante […] un kamikaze”. Cos’è Céline? E’ Céline!
Stefano Lanuzza passa in rassegna le maggiori opere – romanzi sin dalla loro prima edizione oggetto di intensi dibattiti e scontri – con spirito critico – nell’accezione pura, cioè connessa a quell’atteggiamento che vuole analizzare e soppesare ogni aspetto servendosi dello strumento del pensiero libero e scevro dal preconcetto, scrupoloso, attento, illuminato e illuminante – ma anche con intento acritico – da cogliersi nell’intenzione di non formulare alcun giudizio se non connesso a quanto il saggista ha compreso dell’uomo/scrittore (inscindibili).
Richiamo allora un termine già usato, non a caso, che ben descrive quanto il lettore si accinge a fare dinnanzi a Céline della libertà, quanto il critico si appresta a compiere nel rimboccarsi le maniche – tastiera e libro- , quanto l’Autore ha già intrapreso con brillantezza: “viaggio”. E “viaggio” dà il titolo alla prima opera céliniana da Lanuzza affrontata: Voyage au bout de la nuit (Viaggio al termine della notte che Lanuzza traduce dal francese con la versione a suo parere più corretta di Viaggio in fondo alla notte, ribattezzandone l’edizione italiana). A riprova del contenuto a momenti aforistico di quest’opera – come del secondo termine che compone la coppia letteraria della prima parte della trattazione, Morte a credito – l’Autore ne riporta frasi quasi lapidarie, prima di intraprendere il suo viaggio. A chiarificazione dell’intento dell’opera céliniana, riporta quanto lo stesso “maledetto” scriveva: “Il viaggio che ci è dato è interamente immaginario. Ecco la sua fortuna. Va dalla vita alla morte” che suona un po’ come “ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale” con aggiunte che certamente lasciano presagire quale angolatura, quale prospettiva Céline assume nel rapportarsi con la vita umana. La nottestessa del titolo del romanzo è il corrispettivo della morte della premessa céliniana, e questa notte/morte è fronteggiata “fino in fondo”. Sin da qui infatti si osserva emergere la compenetrazione uomo-autore-narratore-personaggio, che le stesse parole, citate, di La Rochelle commentano così: “la letteratura non è che una forma edulcorata della confessione”. Tale ci appare se notiamo come sia possibile in effetti paragonare il rotolare della parole céliniane, irrefrenabile, alla spontaneità di chi sa di non essere condannato. In realtà Céline sapeva che presto sarebbe scoppiata la bomba ma semplicemente non se ne curava, dunque via con il rotolare!
Forte indizio per la suddetta compenetrazione si rintraccia attraverso il protagonista del romanzo, il Je (io) di un Ferdinand Bardamu che è “ritratto psichico e proiezione dello stesso narratore prima di diventare il pronome d’un indefinito e universale nessuno (personne)”.
Ma sono due gli aspetti su cui Lanuzza si focalizza nel passare da un approfondimento all’altro: quello contenutistico e quello formale. In accordo con chi sostiene che la Letteratura è forma (e questo legittima la grandezza di Céline nel panorama mondiale, tenendo anche conto di quanto il contenuto possa cambiare da un popolo all’altro), manderemo giù prima il boccone amaro di un contenuto che suscita tutte le emozioni che lo stile (la forma) vuole rinvigorire, nel chiaro intento provocatorio ma anche più semplicemente scevro dalla diffusa ipocrisia. Il contenuto di cui si parla è quello ideologico, il più avversato, quello che lo avrebbe reso degno dell’etichetta di “maledetto”.
La premessa che è opportuno fare è quella degli anni che videro Céline operante in Francia, quelli delle e tra le due Guerre, che devastarono l’Europa e la videro mutare a una velocità straordinaria su tutti i versanti, dal tecnologico al socio-politico. In tale contesto mal tollerato perché lontano da ogni sorta di strumentalizzazione era il suo pacifismo, un pacifismo adirato, frustrato dal costante marciume spiattellato tutti i giorni. Per Céline “l’immedicabile male del mondo è l’assurdo della guerra e la morte, sorda e insensata ‘creditrice'”. Vi era in lui il rifiuto del patriottismo militarista e guerrafondaio, della cieca obbedienza alla tirannia; perché Cèline era un anticapitalista anticolonialista. “Torna opportuno il sillogismo secondo cui i Paesi poveri, ma ricchi di materie prime, restano poveri perché derubati dai paesi ricchi ma poveri di materie prime, i quali s’arricchiscono ancor più depredando delle materie prime i Paesi poveri” scrive Lanuzza che si fa portavoce della visione di un Céline che vide con i propri occhi i soprusi europei nelle colonie africane, un Céline critico dell’egoismo meschino della piccola borghesia (e riportiamo qui quanto lui fa dire dal dirigente al suo Bardamu – personaggio/proiezione – ricordando la propria esperienza presso la Ford come medico aziendale: ( “voi non siete venuto qui per pensare […]. E’ di scimpanzé che abbiamo bisogno […]. Ci saranno altri che penseranno per voi”), un Céline sensibile alla degradazione delle periferie sottoproletarie e alla solitudine metropolitana “degrado da corte dei miracoli” (Lanuzza). La guerra è tematica non ricorrente ma costante, apostrofata come “ignobile tragedia” (Céline) “esperienza demenziale” (Lanuzza). E significativo appare che queste parole siano state sulla bocca di un patriota pacifista come Céline, per cui la guerra patriottica è “una contraddizione in termini, un mito alimentato da una Storia truffaldina e delittuosa”, un patriottismo che Samuel Johnson chiama “l’ultimo rifugio delle canaglie” mentre il Bardamu di Céline dirà che la coscienza è scambiata per codardia dai militaristi, “rifiuto la guerra […] con tutti gli uomini che contiene […] fossero loro novecentonovantacinque milioni e io solo, sono loro che hanno torto […] io non voglio più morire”.
Nel ripensare a come proprio questo aspetto contenutistico sia stato l’appiglio per ogni avversione allo scrittore, non si può non tener conto di come le ideologie siano sempre state strumentali e strumentalizzate. Non si dimentichi come la stessa scienza e le correnti di pensiero ancora nel XX secolo nascevano e si sviluppavano non per sradicarsi dai vincoli d’interesse e dalle censure – come può dirsi a proposito della matematica che più di ogni altra branca ha potuto a ragione dirsi libera – ma per essere funzionali ad essi, non per dimostrare ma per giustificare (si pensi al darwinismo sociale e a quanto gli stati occidentali fecero nelle colonie, per il loro bene). Fu per la particolare propensione dell’ideologia alla critica che si trasfigurò quanto lo scrittore volesse realmente dire, asservendolo ad altro tipo di scopo, mentre dal lato opposto, quando Hitler nel ’33 salì al potere, i libri di Célibe venivano proibiti in Germania (beh, d’altronde paragonava il Fuhrer al clown Dudule!). E’ chiaro dunque che non era nazista ma non si può dire nemmeno fosse comunista nella sua successiva corrente staliniana, che deluderà fortemente l’autore in seguito ad un viaggio in Russia in cui ravviserà le stesse miserie che le estreme destre procuravano in Europa, tanto avversante ogni sorta di totalitarismo e dispotismo che anche il PCF (partito comunista francese) fingerà di ignorarlo. L’astio crescerà con l’uscita di Mea culpa, in cui lo scrittore mostra tutta la sua delusione per un comunismo che credeva diverso, per un comunismo distante anni luce dalla teoria di Marx e degli utopisti, tanto che verrà etichettato come “rinnegato”. Mussolini, d’altro canto, definisce ilVoyage “scrittura giacobina”. Tuttavia si disse di lui anche questo, su Le Figaro: “per noi la questione non è di sapere se la pittura del signor Céline sia atroce; noi chiediamo che sia vera. Essa lo è”, posizione che Lanuzza comprende e il suo approccio all’autore lo dimostra. Il fatto è uno e Lanuzza lo rintraccia nelle parole di Dubuffet: “L’intellighenzia capì subito che c’era uno che s’era messo a smascherare”.
Lanuzza esprime tutto il suo rammarico per l’ingiustizia che permette di far circolare liberamente opere come il Mein Kampf di Hitler mentre si avversa persino in Francia, da ogni dove, un Céline che tanto avrebbe potuto dare se solo lo si fosse ascoltato prima. E viene in mente quel blocco del progresso, se non quell’involuzione, che viene a depauperare ogni ambito della conoscenza in tempi di guerra, quando lo sfrenato nazionalismo sfocia nell’autarchia fanatica anche culturale sino ad innalzare muri tra chi potrebbe cooperare per il progresso, in un’impossibilità di comunicazione, di confronto/scontro fautore di vita e creazione. Neppure “a titolo conoscitivo “, scrive Lanuzza, le opere di Cèline sono reperibili, “sparite dalle librerie” e “la cui ristampa è, di fatto, ancora interdetta”. (Continua il 27 marzo, venerdì)
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