sul personaggio di Atticus Finch

Il 19 febbraio di tre anni fa se ne andava, all’età di 90 anni, Harper Lee, lasciando dietro di sé un retaggio divenuto ormai mito e simbolo di una civiltà, con le sue contraddizioni, e una polemica, a mio avviso sterile, attorno alla pubblicazione di quello che fu il suo primo romanzo scritto destinato a essere l’ultimo edito. Non entrando nel merito della legittimità della pubblicazione e della capacità d’intendere e di volere dell’anziana Harper (che a detta di alcuni pare sia stata raggirata), ciò con cui non concordo è l’enorme delusione che avrebbe rappresentato per molti – lettori affezionati e critica – “Va, metti una sentinella” se paragonato al grande successo d’esordio de’ “Il buio oltre la siepe” che allora le fece vincere il Premio Pulitzer per la narrativa (1961).

La grande delusione da un punto di vista stilistico nei confronti del romanzo (che in effetti, da prima opera, contiene solo i prodromi di quella prosa lirica che sarà più volte e più efficacemente toccata con “Il buio”) non è paragonabile alla delusione, espressa da molti, nei confronti dell’ormai epico personaggio di Atticus Finch, personaggio che ha segnato un’epoca ed è entrato nel cuore di più d’una generazione, specialmente negli Stati Uniti dove più erano accese le lotte per i diritti umani. Se vi è un impatto brutale, questo non è tra lettore tradito e Atticus ma, più probabilmente, quello tra una Scout (Jean Louis) che si trova a varcare la soglia che separa l’adolescenza dalla prima età adulta senza aver mai fatto i conti con la normale “disillusione” nei confronti della figura genitoriale, che la trasformerebbe da divinità a essere umano. È forse un romanzo di formazione? Racconta sicuramente un percorso di crescita, di elaborazione di un lutto, quello della pregressa manichea visione del mondo, delle proprie idee sulle persone, un lutto di pezzi di sé, perché a cambiare è stata soprattutto proprio lei. Credo che l’Atticus dell’ultimo romanzo della Lee – lo ripetiamo, scritto tuttavia prima de’ “Il buio” – non sia un altro Atticus. A cambiare è la prospettiva di chi guarda, che ne scorge altre angolature, prima coperte perché fuori dal campo visivo, e tuttavia vi ravvisa anche i tratti e i modi di sempre. Familiare mi è apparsa la sua figura genitoriale, col suo esemplare metodo educativo fatto di rispetto.

Questo articolo, dunque, è volto a spezzare una lancia in favore del vecchio Atticus, che avevo il terrore d’incontrare proprio in virtù della critica e forse tanto più quanto i temi e i ruoli trattati vanno a toccare una corda che mi sta molto a cuore. Probabilmente le mie aspettative erano catastrofiste ed è vero che “Gioia vana ch’è frutto del passato timore”, per dirla con Leopardi, ma aiuterà, come ha aiutato me, leggere il romanzo ambientato un ventennio più tardi con il consiglio che lo stesso Finch padre diede vent’anni prima, quand’era ancora amato dai lettori: “You never really understand a person until you consider things from his point of view[1].

O forse la spiegazione è un’altra: che sia più facile perdonare e rispettare le scelte politiche di Atticus perché continua tuttavia a rispettare lui in primis l’altro e a mantenere con coerenza la propria linea paterna, sino ad accettare di essere ferito nell’orgoglio pur di vedere la propria figlia crescere e pensare con la propria testa? Lì dove Freud parlerebbe di “parricidio”, a fronte di una stragrande maggioranza di padri odierni annichiliti nell’orgoglio al primo conflitto coi figli, alla prima squalifica di ruolo (e per tale ragione spesso di contro ancor più rigidi nelle proprie posizioni, come in un braccio di ferro), negli anni ’60 la Lee dipinge un vecchio Atticus che non potrebbe essere più progressista, anteponendo l’autonomia di pensiero della figlia alla sua ammirazione.

Per comodità distingueremo i due momenti storici definendo il giovane Atticus quello del primo romanzo, il vecchio del secondo (di cui, peraltro, sarebbe bello vedere una trasposizione cinematografica che sia all’altezza del libro come lo fu allora il film con Gregory Peck).

Cominciando dal giovane, il quadro è questo: un distinto avvocato in carriera, stimato e rispettato dai concittadini (nel caso di Maycomb, piccola città dell’Alabama nel profondo Sud anni ’30, sarebbe più onesto dire compaesani), si trova, vedovo, a dover crescere da solo due figli, Jem e Scout, facendogli sia da padre che da madre – mettendosi spesso in discussione anche per questo – con l’aiuto quotidiano della domestica afroamericana Calpurnia, rispettata e stimata anche per l’affetto e la dedizione che lei stessa riserva ai bambini. Figure parentali di supporto, ma che non interferiscono – o non riescono a farlo – con la funzione paterna di Atticus sono il fratello e la sorella, Jack e Alexandra. Pur parecchio assorbito dal lavoro, il padre non manca mai di dedicare tempo ai figli, alle loro esigenze e soprattutto alle loro domande, a cui tutti gli adulti sembrano non voler rispondere o rispondono perentoriamente. Pensa che il rispetto, da parte di chiunque (figli compresi), si debba meritare e che il diritto a dir loro cosa è sbagliato e cosa no, a guardarli negli occhi, lo si acquisisce solo attraverso la coerenza e l’onestà sulla propria stessa persona. In una parola: l’esempio. Jem e Scout devono potersi fidare di lui. Non si può vivere in un modo in città e in un altro modo dentro casa. Ognuno deve poter esprimere la propria natura e, se in errore, va compreso nelle sue ragioni e poi aiutato a capire i perché e i per-come. Atticus non si offende se l’ingiuria non corrisponde a verità ed è del parere che dica più su chi la dice. Se corrisponde a verità, non è un’ingiuria. Atticus si prende uno sputo in faccia se quello sfogo può salvare qualcun altro da ben più dolorosa ferita. Non alza la voce, non offende, spiega. Non punisce, e quando accade è sempre un compito riparativo, che ha un nesso logico con il torto commesso, ma perlopiù offre un comportamento alternativo e lo attua per primo, aiuta a mettersi nei panni degli altri e a comprendere le loro ragioni. Si rifiuta di praticare la caccia e, sebbene fosse in gioventù il miglior tiratore di Maycomb, non tocca un fucile se non indispensabile. Dice che il coraggio non è un uomo con una pistola in mano, il coraggio è quando sai che sarai sconfitto prima di cominciare ma cominci lo stesso. Tratta tutti allo stesso modo, a prescindere dal gruppo a cui appartengono e dalle caratteristiche su cui i più tendono a porre l’accento. Il suo motto: uguali diritti per tutti, speciali privilegi per nessuno. Difende il diritto di ciascuno a essere se stesso, fuori dai dogmi e dalle etichette del galateo. Legge il giornale ogni sera e ai figli qualsiasi tipo di libro. Pensa che se gli altri non sono d’accordo con lui, non importa, perché lui prima che con gli altri è con sé che deve vivere. Il comportamento degli adulti fornisce ai bambini la chiave per il significato da dare alle cose che accadono, è un punto di riferimento, una bussola, e se l’adulto non si mostra preoccupato vuol dire che non è ancora tempo di preoccuparsi. I piccoli ripetono le parole dei grandi, nel bene e nel male: il cuginetto Francis non esita a ripotare l’etichetta di “nigger-lover” sentita dalla nonna che si lamentava della condotta di Atticus, e Scout, al momento giusto, ricorda al padre quanto lui le aveva detto una volta, che prendersela con qualcuno che non ha fatto male a nessuno è un po’ come sparare a un mockingbird (che la versione italiana traduce con usignolo, che è la specie che più si avvicina per caratteristiche al mockingbird che in Italia non esiste). Per questa e per altre ragioni, sa che anche gli adulti possono imparare dai bambini.

Credo che in tutto ciò che è stato detto finora il giovane e il vecchio A. non siano diversi, se non per una maggiore sopportazione, acquisita dal vecchio, della paura di deludere e quindi perdere la figlia insieme alla frustrazione che ne consegue e di cui non fa mostra.

Ciò accade, naturalmente, inesorabilmente, fortunatamente. Poiché rappresenta la premessa a partire da cui Scout potrà diventare adulta, smettere di idealizzare il padre e camminare sulle proprie gambe, spostando l’asse della propria moralità da quest’ultimo a se stessa. I bambini sanno cosa e giusto e cosa no perché hanno imparato ad associare i comportamenti alle aspettative degli adulti, a cui seguiranno premi e punizioni, i criteri di valutazione dei fatti sono esterni, legati alle conseguenze delle azioni, la giustizia, immanente, è retributiva e la punizione arbitraria ed espiatoria. Si sta parlando della morale eteronoma, secondo il modello piagetiano. Crescendo imparano che anche gli adulti possono sbagliare e che non tutti devono pensarla allo stesso modo, le regole possono cambiare da un luogo a un altro e sono convenzionali, frutto di negoziazione, i criteri di valutazione diventano interiori e connessi all’intenzionalità di ciascuno, la giustizia è distributiva. È la morale autonoma, che affiora tra i 6 e i 7 anni di età, quando ci si confronta con un orizzonte che oltrepassa i confini del proprio recinto familiare.

Sebbene l’educazione di Atticus avesse sempre cercato di stimolare questo passaggio, come emerge meravigliosamente da entrambi i romanzi, Scout non sembra averlo ancora compiuto a pieno. Nel proprio mondo interiore, Atticus era sempre stato il metro del proprio giudizio. Molti padri ne sarebbero lusingati. Non Atticus. E poiché lui sa bene quale sia il compito di un genitore, quando la figlia ormai giovane donna gli grida “Ti disprezzo”, lui risponde “Io, invece, ti amo”; “Io me ne andrò da qui al più presto”, “Fa’ come ti pare”. E quando più avanti lei prova a scusarsi, lui la rassicura: “Tu puoi essere dispiaciuta, ma io sono fiero di te”.

E la rabbia del primo impatto con le scoperte di Scout, una volta tornata in vacanza nella città di origine, non è solo stemperata da questa paternità, ma anche dal ragionevole dubbio che in fondo le scelte politiche di Atticus fossero dettate da una strategia, che affiora solo nel momento in cui la figlia si dispone ad ascoltarla. Dopo una vita trascorsa con un uomo che si batteva per la parità dei diritti, Scout ritrova un uomo che era entrato a far parte del Consiglio dei Cittadini (noto per i propri moventi segregazionisti), scoprendo che in gioventù aveva partecipato a riunioni del Ku Klux Klan, e se ne sente morire. Non riconosce più quella linea etica che le aveva fatto da guida nella vita, da “sentinella”.

E qui forse risiede la sostanziale differenza tra il giovane e il vecchio Atticus: il primo accetta di difendere in tribunale un uomo di colore perché crede nella sua innocenza; il secondo, in una società profondamente cambiata, sempre più complessa, dov’è ancor più complicato attuare i giusti distinguo, ancora una volta si assume la difesa di un nero (questa volta molto probabilmente colpevole) ma le sue ragioni non sono più le stesse. In sintesi, come spiegherà alla figlia, se un tempo la società era divisa in bianchi che studiavano e contribuivano al progresso e neri che non avevano accesso all’istruzione superiore e compievano i lavori più umili, discriminati e destinati a non far nulla di rilevante, il tempo spingeva per l’integrazione, a fronte di una società non ancora pronta a recepire questo messaggio né le sue conseguenze. Ciò valeva tanto per i bianchi quanto per i neri. Non tutti avevano la stessa educazione e la stessa maturità nell’assumersi le responsabilità della cittadinanza. Da ciò nasceva il conflitto inter-gruppi. A partire da questa premessa, padre e figlia divergevano sulla risposta: la colpa è dei neri perché gli sono state date sufficienti opportunità e non hanno saputo coglierle dunque vanno puniti ed esonerati da certi ruoli e contesti; oppure la colpa è dei bianchi che non hanno davvero fatto abbastanza per l’integrazione e per offrire pari opportunità, dunque tutta la società deve fare di più, equamente responsabile della devianza? Dalla narrazione emerge un Atticus che propende sì per la seconda opzione, ma senza troppa fretta, per dare il tempo al popolo di crescere, maturare dentro di sé istanze ancora assenti, specialmente nelle sperdute aree rurali del Sud.

Questo non è l’Atticus che la piccola Scout avrebbe mai immaginato. L’uomo tutto d’un pezzo le appare adesso l’uomo del compromesso (con se stesso in primis); l’uomo che non avrebbe potuto incontrare gli occhi dei figli se non si fosse comportato secondo i propri principi le appare adesso incoerente. Lungi dal voler addentrarci nei meandri della politica americana (di cui peraltro, a dispetto di quanto potrebbe sembrare a ogni elezione di Presidente, noi italiano non capiamo granché), tra Consiglio dei cittadini e tradimento del Decimo Emendamento, la figlia scopre che lei e il padre sono due persone diverse e, soprattutto, che il padre è una persona.

Lo zio Jack: “hai confuso tuo padre con Dio. (…) Tu eri emotivamente un’invalida, appoggiandoti a lui, ricevendo le risposte da lui (…) Dovevi ucciderti, o lui doveva ucciderti perché tu funzionassi come un’entità separata”. È in tal senso che Freud parlerebbe di parricidio, con riferimento alla rappresentazione mentale che si ha del padre, del suo fantasma. È in tal senso che Winnicott parlerebbe di disillusione, e la Klein di integrazione tra seno buono e seno cattivo. “Certe volte dobbiamo uccidere un po’ per poter vivere”, dice ancora lo zio Jack.

A essere uccisa, nell’immaginario del lettore, è qui l’immagina mitizzata di Atticus Finch, che diviene uomo. Percorre strade diverse da quelle di chi lo ha amato e lo ha sventolato come un’icona, ma siamo sicuri che il suo obiettivo sia parimenti cambiato? “… il Klan può fare tutte le parate che vuole, ma quando si mette a picchiare e lanciare bombe sulla gente, sai chi sarebbe il primo a cercare di fermarlo? (…) il momento in cui i tuoi amici hanno bisogno di te è quando hanno torto, Jean Louise”.

E allora scatta un altro sospetto: che Atticus si fosse reso il cavallo di Troia del profondo Sud segregazionista? A un tratto Harper Lee gli fa dire alla figlia: “Rimarresti sbalordita se sapessi quanta gente sta dalla tua parte, se parte è la parola giusta. Non sei un’eccezione. Le foreste sono piene di persone come te, ma ce ne servono altre”.

E basterebbe solo questa dichiarazione per chiedersi: ma i lettori e la critica… quale libro hanno letto? Perché il “Va’, metti una sentinella” che ho letto io restituisce un uomo più complesso, contraddittorio, ma non molto diverso da quell’esempio umano che ha dato a molti il coraggio di tener testa a un mondo sempre meno civile.

Un saluto ad Harper Lee, che forse avrebbe gradito questa apologia.

Giulia Sottile


[1] Non capisci mai davvero una persona finché non consideri le cose dal suo punto di vista.