Immortale favola di Cianetti
Quel grande paradiso dove legifera la Natura
LA DIGNITA’ DELL’UOMO OFFESA DALL’UOMO STESSO – DOPO 37 ANNI LOSTAMBECCO DELLA FAVOLA DI CIANETTI LO RITROVIAMO NELLA UCCISIONE DE LEONE CECIL – LA GRANDE LETTERATURA METAFORA DELLA VITA –
di
Giulia Sottile
Resta attuale, anche a distanza di esatti trentasette anni dalla sua prima edizione, l’immortale favola – definita “favola-thriller” – di Massimo Cianetti, romanzo che gli valse il “Maria Cristina” e che fu finalista al Campiello nel ’78. Quel grande paradiso, le cui vicende si svolgono proprio sul Gran Paradiso, in Val d’Aosta, resta nel cuore a chi ha la percezione della sacralità della vita tout court. È stato accomunato ai grandi romanzi di caccia come Il vecchio e il mare di Hemigway e il Moby Dick di Melville, ma anche a Jagdnovelle di Horst Stern che lo avvicinerebbe più, dunque, alle «grandi saghe del mondo germano-nordico, dove il confine tra reale e surreale è impercettibile e le interferenze tra naturale e soprannaturale sono del tutto ovvie».
Sarà forse il particolare impatto che questa storia ha su chi ha sempre trovato triste la caccia e ha magari pianto da piccolo su un piatto di fresca cacciagione guarnita di spezie, sarà forse la sensibilità di Cianetti che riesce a dar voce ai tre protagonisti di quello che è solo un dramma – il cacciatore, il guardiaparco e lo stambecco attorno al quale si espande sempre più un alone di magico mistero – sarà forse tutto questo che rende indimenticabile questo omaggio alla dignità. Perché questo è Quel grande paradiso. La dignità dell’uomo quando viene offesa dalla vita o dimenticata dall’uomo stesso, la dignità degli animali ma, in una parola, la dignità della Natura. Natura che l’uomo calpesta quotidianamente spinto dal delirio di onnipotenza che gli fa credere che non ci siano altro ordine e altra logica oltre quelli che dà lui, che lo pone narcisisticamente al centro di un universo che gli ruoterebbe attorno come la Terra al Sole. E non è contemplata nemmeno la possibilità che un animale possa pensare, che una pianta, un masso possano pensare. E lo stambecco è una «capra cornuta» al servizio degli impulsi di chi ha evidentemente bisogno di conferme e non le trova.
Non è però una critica o una condanna all’uomo, no, non è nemmeno una denuncia. È uno studio. Si dispiega pagina dopo pagina la ricerca di una spiegazione del fenomeno della caccia in epoca contemporanea. Certo non si può condannare chi ne fece attività prioritaria per il sostentamento – e chi tutt’oggi ha tale obiettivo, non entrando nel merito di scelte alimentari del tutto individuali – pelli ossa corna erano tutto ciò che restava dopo la selezione delle carni e del grasso. Un saggio uso funzionale era sensato. Nulla di più diverso dalla caccia di chi cerca trofei da esporre a testimonianza della propria forza, di potenza virilità ricchezza potere. Ma mentre la potenza di un animale è funzionale alla protezione della vita, quella dell’uomo mira alla distruzione di essa.
Verrebbe da dire – in un moto di catastrofismo saggiamente accantonabile – che «lo spettro della malattia» che l’uomo frustrato sente – ciò che rende inespressa l’aggressività che diviene ed esplode in violenza –sia l’uomo stesso. Come dire che il veleno che cresce dal di dentro stia all’uomo come l’uomo stia alla Natura. O alla Vita. In fondo le due sono strettamente intrecciate. Ma, come già detto, si tratterebbe di catastrofismo e Cianetti dà voce anche a personaggi come il guardiaparco, sensibile a quella sacralità che la Natura – animali compresi – ha.
Il cacciatore non deve mangiare, deve godere. Uccide per il gusto di farlo, per la sopraffazione, per lo spasmodico bisogno di avere in pugno la vita, come per vendicare invece il senso infinito di impotenza provato dinnanzi a ciò che non si può controllare. Un esorcizzare la propria debolezza, la propria piccolezza nel più ampio raggio di logiche che ci sfuggono. La frustrazione, la rabbia, conducono il cacciatore di Cianetti a sparare persino agli iceberg e a vantarsi di quell’impresa. Ma «che male gli hanno fatto gli ice-berg?» sono le riflessioni del guardiaparco, «forse perché se ne vanno liberi per l’oceano mentre lui, non potendoli comprare, li distrugge…».
E sta proprio qui il dramma dell’uomo, che non è “cattivo”, è frustrato. Così il cacciatore odia il guardia, fondamentalmente perché ne invidia la coscienza pulita, mentre il guardia più che odiarlo lo compatisce, ne prova pietà.
Per questo Quel grande paradiso non è una denuncia ma uno studio. Non si ragiona per cliché o comunque servendosi di stereotipi, si scava nell’umano, dove “umano” non vuol dire “il bene che c’è in ognuno”, ma semplicemente “umano”, con tutto ciò che ne deriva in fragilità e drammi. Così forse l’uomo vuole cacciare per esorcizzare l’impotenza nei confronti della vita e, a dispetto della ridotta consapevolezza umana, la Natura ha le sue leggi, è armonia, e “sente” – come “sente” lo stambecco – a fronte della nostra abitudine a considerarci come unici esseri pensanti.
Pensiamo a questo. Pensiamo all’altro da noi, alla vita e alla dignità al di là dell’uomo. Non siamo universali detentori. Perché ciò che non comprendiamo diviene oggetto di paure o viene mortificato?
«Gli stambecchi erano il simbolo della libertà e dell’indipendenza». Quelle che, nel ventunesimo secolo, l’uomo ancora non trova?
Giulia Sottile