Esordisce con Le reti di Quadri (ed. Prova d’Autore) Gaetano Cataldo mostrando sin dal principio maturità stilistica e contenutistica che rende unica la sua affabile prosa. La sua produzione, a dispetto dei chiari riferimenti a quelli che per lui hanno rappresentato modelli letterari quali Leonardo Sciascia, è dunque puramente cataldiana. L’Autore, magistrato che ben conosce i retroscena della Giustizia sei tribunali, come quelli dell’Università (“gli inferi della facoltà di giurisprudenza”), sceglie di assegnare le redini della vicenda a due personaggi, il Sostituto Procuratore Grisafi e il Professore Quadri, che indagheranno parallelamente su un caso di omicidio servendosi rispettivamente di procedure e stili di pensiero propri dei contesti nei quali operano e che hanno contribuito a plasmare il loro rapporto con la realtà. Amici fin dal liceo, la reciproca stima impedisce il conflitto; pur tuttavia essi permettono a Cataldo giudice-scrittore di illustrare bene, quale addetto ai lavori, le contraddizioni e le ambiguità proprie del sistema giuridico e di quello accademico nel contesto-fiction letteraria della (città di Catania), ambientazione del romanzo. Romanzo il cui genere si potrebbe definire giallo, eppure non è il classico giallo, tra speculazioni sul diritto romano che ripercorrono le ricerche che lo stesso Autore fece e che gli valsero, a suo tempo, un dottorato di ricerca. Esse ruotano attorno a un’asserzione latina (Gaio) che poco comprensibile risulta essere ai non esperti ma che verrà spiegata a più riprese con il procedere delle riflessioni dello stesso professor Quadri, (alias Cataldo). In realtà a essere proiezione dell’Autore sono entrambi i personaggi, ognuno portavoce di una dimensione della propria quotidianità, sul versante professionale e intellettuale. Forse è proprio dall’esigenza di giungere a una sintesi tra esse che nasce il sodalizio Grisafi-Quadri. Grisafi, avendo chiare in mente le mappe legali come binari entro i quali dar senso agli eventi e a un alfabeto per decriptarli, Codice di Procedura Penale alla mano (il “bilanciamento”), Quadri, volgendo l’attenzione più a ciò che manca piuttosto a ciò che c’è, “ostinatamente dubitando” (la “autonomia”). E la cosiddetta deformazione professionale prevale e pervadé la stessa prosa, ricca di latinismi che non devono spaventare, essi espressione del linguaggio tecnico dell’Autore e dei personaggi e che quindi ben facilita l’accesso del lettore al mondo di Quadri e il legame a Quadri stesso, nonché la sua comprensione. Questa infatti non è inficiata dai tecnicismi che finiscono per pervadere, come il linguaggio narrativo, anche le faccende di vita umana estranee al mondo giuridico.
L’omicidio oggetto d’indagine è quello di una donna la cui identità emergerà poco alla volta insieme alle sue vicende passionali fino alla verità inattesa, molto tempo dopo la chiusura del caso. Ciò che salta all’occhio è l’assenza della donna eppure la presenza costante proprio attraverso l’assenza stessa (se non consideriamo le brevi comparse, che nessun ruolo hanno, se si esclude la vittima, morta fin dalla prima pagina ma più caratterizzata rispetto alle vive). Il riferimento ad essa, con la prima stranezza che farà partire il motore di Quadri, è la mancata assegnazione del caso a una donna, come di prassi si sarebbe dovuto in quelle circostanze, eppure ciò che sorprende è proprio questa scelta anomala argomentata con le seguenti parole da Quadri-Cataldo: “Quadri avrebbe voluto dire a Grisafi che il Procuratore Generale forse contava sul fatto che una donna alla guida delle indagini potesse essere capace di scoprire ciò che un uomo non era capace di scoprire”. Dunque l’assenza della donna non si può dire sia dovuta a misoginia, al contrario, proprio l’assenza sottolinea continuamente l’esigenza della presenza. Eppure anche in altra circostanza viene chiamata in causa a farsi concreta, e con ben altri toni e ben altri intenti. Infatti – e risulta qui curioso – l’unica volta in cui compare la parola “reti” nel romanzo, essa fa riferimento alle “reti femminili”, alle trame della donna che strumentalizza la seduzione. Ma, la donna, anche quando viene dipinta come un’ipocrita, tornacontista, maliziosa, non è mai sciocca, alle spalle di ogni maschera femminile c’è sempre un’intelligenza.
Altra assenza che si fa presenza è quella dell’imputato, Abdel Kadel Muhammed, che incarna perfettamente l’odierno capro espiatorio di tutti i mali sociali e ben credibile risulta dunque essere la sua colpevolezza. Su di lui sembrano collimare tutte le piste, sorrette dal “sentimento antislamico” promosso e consolidato dai mass media. Ma è talmente permeante che tra le riflessioni obiettive di Grisafi compare anche quella relativa alle modalità con cui avrebbe potuto “tutelare il povero Abdel Kadel Muhammed dal proprio difensore”. E ciò è tanto più vero quanto il successo delle arringhe è basato sull’efficacia della retorica, che ricorre ad artifici che dilettano e convincano al di là dei fatti realmente accaduti, a costo di scomodare dall’aldilà uomini come Manzoni, Borges e Pirandello. Questo è tutto dire, se si pensa a come tutt’oggi la retorica seducente – non nel senso erotico del termine – faccia anche ai Big sfuggire l’inadeguatezza di riferimenti teorici in rapporto alla materia oggetto di indagine. E questo non può non farmi pensare, soprattutto per via della nazionalità dell’imputato del romanzo, al famoso caso Lynn, studioso che nel 2010 sostenne che i Meridionali fossero meno intelligenti dei Settentrionali, per via della mescolanza genetica con popolazioni del Medio Oriente e del nord Africa – e lasciamo perdere il fatto che già molto tempo prima illustri personalità come Kamin avevano dimostrare la infondatezza scientifica delle teorie di quanti fino a quel momento avevano semplicemente coltivato gli interessi delle politiche statali o il proprio orgoglio davanti ad accuse di razzismo, sessismo o classismo, lasciamo perdere anche l’inadeguatezza degli strumenti di misura e l’arbitrarietà procedurale – Lynn argomenta le sue tesi citando Dante!
Ma, come già detto, Le reti di Quadri non è un semplice giallo, sarebbe riduttivo inquadrarlo in questa categoria fianco a fianco a libri che non si pongono le stesse domande di Cataldo, che coglie l’occasione più volte per compiere speculazioni intellettuali che giustificano lo stesso nome del protagonista, Quadri. Infatti l’unica volta in cui nel romanzo compare la parola “quadro”, essa fa riferimento al “quadro indiziario”. Questa diviene metafora di pensiero.
Così l’Autore, adottando Grisafi come portavoce, nell’occasione di un aneddoto adolescenziale, scrive: “Chi, a differenza di noi tutti, ha visto come andavano le cose prima del Sessantotto, converrebbe che, a giudicare dalla maggior parte dei suoi effetti, il Sessantotto ha avuto più a che vedere con la confusione che con la rivoluzione”, espressione della raffinatezza delle letture dello stesso Cataldo che fa riferimento, e lo dice chiaramente, a La Rochefoucald: “l’amore, se lo si giudica dalla maggior parte dei suoi effetti, assomiglia più all’odio che all’amicizia”.
Emerge inoltre, tra le speculazioni sopradette, la vecchia accezione di legislatore che coincideva con il popolo e non con un’unica figura detentrice di potere, tra autorità e responsabilità. Era il popolo a fare le leggi, al tempo della democrazia diretta. E questo a supporto della stessa tesi che andava a reinterpretare semanticamente l’asserzione latina che trasversalmente taglia il romanzo, storia nella storia, storia di un’idea.
La legge è forma della ragione, ricorda ancora Quadri dalle rimebranze di Sciascia. Ma poi, partendo dall’apprezzamento per lo scrittore siciliano, il protagonista cammina con la propria testa e non concorda con la tesi kantiana secondo cui tutto ciò che è reale è razionale e tutto ciò che è razionale è reale. E’ ciò che ha reso forte la scienza positiva e che non permette di valicare quegli stessi paletti che l’uomo ha costruito e di cui rifiuta l’esistenza. La conclusione a cui giunge Grisafi è che “verità e falsità non esistono, se non in ordine alle nostre previsioni di ciò che accadrà nella realtà”, a cui Quadri controbatte “E’ ciò che giustifica l’indiscutibilità di un verdetto penale […] ciò che non vi trova posto è irrazionale, e dunque falso […] il verdetto è sempre e comunque vero”. Ma è davvero vero (perdonate il gioco di parole)?
La speculazione arriva persino ad una, ironica certamente, proposta di legge. Le premesse erano queste: “a meditare sulle parole di Sciascia, contenute in quelle parole, che, come da sempre si è ritenuto in Sicilia che le idee poco o nulla possano cambiare la realtà, essendo destinate le cose della vita ad andare come è destinato che debbano andare, così anche nel resto del Paese si cominciasse a concepire l’esistenza di un ineluttabile e immutabile ordine delle cose. Un ordine la cui ineluttabilità e immutabilità non avrebbe potuto certo essere scossa da un labile tratto di matita in una scheda elettorale”. La proposta di Quadri-Cataldo allora, scherzosamente, è la seguente: “che si desse al Giudice la facoltà di applicare al destinatario dei suoi provvedimenti tutto il corpus di leggi voluto dalla parte politica che il destinatario del provvedimento aveva votato, e di disapplicare il corpus di leggi non voluto dalla parte politica, che il destinatario del provvedimento aveva votato”. Notasi qua, giusto per tornare all’aspetto stilistico, ancora una volta la deformazione professionale dell’Autore che vuole e deve essere chiaro, a costo di divenire ripetitivo e ridondante, come in un’arringa o in un verdetto. E ancora altra ironia si riscontra nella legge tacita secondo cui: “l’imputato ha il sacrosanto diritto di mentire”.
E ancora ironia, a smorzare i toni di un argomento che, anch’esso, si presta a insite pesantezze, scrive: “Solo grazie alla nostra vanità la falsa moneta della lusinga può trovare corso” (citando Rochefoucald), illustrando contesti relazionali dove le gerarchie professionali erano scrupolosamente rispettate, mostrando maschere di diplomazie contornate da sottigliezze lessicali fatte di insinuazioni a marcare il territorio e circoscrivere status. Ma d’altronde lo stesso Autore chiama il Tribunale “luogo istituzionalmente deputato a lusinghe e raccomandazioni perseguire”.
Naturale conseguenza di questa condizione, e di quanto intrinseca al sistema sia la morale kantiana come la scienza positiva, traspare dallo scambio di battute tra i due avvocati. “Sono convinto che la tua tesi sia corretta, ma francamente è troppo difficile da dimostrare, dubito che verrà accettata” (Grisafi), “Meglio dunque una falsità semplice da credere che una verità oscura da svelare” (Quadri). Così, allo stesso modo, in seguito emerge la distinzione tra due tipologie di onestà: quella “delle persone sulle cui azioni il prossimo non trovi niente da ridire, e l’onestà delle persone le cui azioni lascino il prossimo senza parole”.
Alla luce di questo quadro (termine qui calzante), che ne sarà di Abdel Kadel? Che ne sarà di personaggi come il dott. Arezzi e il Procuratore Generale e che ne sarà delle indagini dei co-protagonisti? Ovviamente non posso rivelare la conclusione del romanzo, ma confesso che se avessi affrontato queste riflessioni qualche tempo fa non sarei stata io in grado di farlo. È spiazzante, la fine, tanto quanto enigmatica. Tuttavia, giunto il lettore all’ultima pagina, giungerà anche alla verità, scomoda e incredibile, ma reale.
(Giulia Sottile)