Da rileggere più volte la poesia di “Vestito zebrato” (ed. Prova d’Autore) di Roberta Musumeci, a scorgerne sempre sfumature diverse. Coerentemente con una complessità che è propria della scrittura creativa e della donna.
I giochi di senso sono forse testimonianza di quanto la poesia possa essere vero e proprio percorso iniziatico in cui fare i conti con se stessi, nel più o meno consapevole proposito che è proprio della letteratura stessa, quello di scandagliare l’animo umano. Senza finzioni, senza ipocrisie, qui si assiste ad una messa a nudo dinnanzi solo a se stessi, nel riconoscere debolezze e imperfezioni che conducano anche all’umano totale abbandono – autolesionista? – per porre tregua alle tensioni della quotidianità, alle sovrastimolazioni a rischio cortocircuito, debolezze e imperfezioni fisiologiche come l’ingordigia di chi mangia una caramella alla menta per saziarsi consapevole di essere insaziabile. È svelamento di sé a sé, a scovare «il ragno cavato» che è scheletro nell’armadio o pensiero indicibile? È forse allusione a quel senso di inadeguatezza, al timore di non essere abbastanza per sé? Eppure è essa percezione distorta di conflitti inconciliabili tra «architetti viziosi e ambiziosi» e fondamenta percepite «poco solide». Ma è perpetuo il moto di un’anima sradicata, divisa tra due isole (Sicilia e Sardegna) in pezzi che non sempre ha potuto unificare, coabitanti in lei e distinti, si scollano e si rincollano, in una partita costante, altalena tra ritrovarsi e smarrirsi, nell’accettazione della propria mutevolezza. È scoperta e accettazione di sé, dell’ineludibilità del proprio essere a dispetto di fittizi vani autocontrolli: un licantropo ulula alla Luna anche sotto le lenzuola dietro le imposte chiuse della finestra. Potrà non arrivare la luce lunare, ma ne giunge influsso magnetico. E allora ci sarebbe da chiederci quanto della nostra stessa vita ci sfugge, sfugge al controllo, e solo incontrando la nostra natura il mistero ci svela. A fronte di questa natura, IN quella della Musumeci, c’è l’essenza di una sincera femminilità, dispiegata in tutta la sua sensualità, tra ironie e rimandi ai suoi «occhi da gatta», esso piccolo indizio insieme agli altri a coglierne peculiarità. Sono occhi ladri, ladri d’anima da barattare in cambio d’amore, ma non è un furto alla Robin Hood quello di Roberta, bensì egoistica rivendicazione di un diritto connaturato nell’essere umano: quello di desiderare di essere amati. Il riferimento nello specifico è poi al più recente furto della poetessa-ladra, «il più redditizio», a tal punto che mai potrebbe rivelare il nascondiglio dell’oggetto del suo amore. E ancora altro indizio di femminilità si trova in “Unghia spezzata”, dov’è esplicitata l’esigenza di difendersi da qualcosa. Cosa? È dubbio se dall’esterno o dall’interno, stando alla velata tensione e colmare vuoti, a circoscrivere lacaniani bordi, a disegnare di proprio pugno il proprio modo di essere donna. E tralasciamo le interpretazioni antropologico-etologiche dell’uso del rossetto, peraltro discutibili disquisizioni. Basta quel decoro sull’unghia, in aggiunta, una rosa nera, a voler rimarcare un concetto, a voler dire “donna ma donna così”, nera a far spiccare ancor più il calore di chi, dinnanzi a depauperazione su cui non versa lacrime, continua a camminare su quella stessa strada dove l’unghia è smarrita, senza voltarsi indietro. Il solo rimpianto era la funzione di arma che essa rappresentava, espressione – a questo punto – sì di una sensualità ma non facilmente avvicinabile, a rischio aggressione, trasmutantesi in armatura bidirezionale.
Ma nei toni malinconici emerge il senso racchiuso nello stesso titolo della silloge poetica, a permettere coesistenze apparentemente inconciliabili. Torna il tema del Tao con sfumature tutte occidentali, tutte femminili. È l’intreccio indistricabile di opposti. Così la Musumeci s’ingarbuglia «cercando di razionalizzare» e le bastò un’occhiata per toglierle la vista. Così quell’onda paziente sta tra immobilità e moto, tra essere e divenire, tra andare e restare. Ulteriore sottigliezza nel riflettere che forse mentre una parte di sé resta, l’altra va, inglobando entrambi i poli, e si ha un divenire in loco. Contrapposizioni tra luce ammessa e luce estromessa, come quella delle stelle fuori dalla finestra, come se la desiderasse e la plasmasse, ma poi la tenesse a distanza di sicurezza. In un moto di capriccio, le impedisce di entrare per non averle dato abbastanza. Contrapposizioni, nella furia del vulcano – e qui si ha un immancabile omaggio all’Etna – che sui volti neri di cenere fa spiccare un ancor più smagliante sorriso, forse quello che riflette il maggior valore che una cosa bella possa avere nei momenti di sconforto.
Nel paese del vestito zebrato, con il riflesso delle candeline sugli occhi brillanti, si ritiene troppo sporca per le lenzuola pulite ma troppo pulita per distendersi sul pavimento. Così si ha la sensazione della ricerca – e raggiungimento – di una condizione di equilibrio.
Nella consapevolezza di essere diversa dalle aspettative di una società che vorrebbe cambiarla, Roberta Musumeci è una bilancia e guarda contemporaneamente a entrambi i piatti senza diventare strabica. Il segreto dell’equilibrio è l’accettazione di più realtà amandole tutte? Subentrerebbe il senso di protezione dalle incursioni omologatrici.
E sarebbe proprio il caso di dirlo, qui, stando alle divagazioni di una sensibilità immersa nel presente sociale. Quella propria del paradosso dell’uomo che costruisce «la pace usando la guerra» e sostiene ancora di stupirsi dinnanzi alle calamità. Quella della legge dello scorpione che non può tradire la propria natura, nella totale assenza di genuina disinteressata solidarietà, sostituita essa dalla cattiva fede che abita l’inerzia di coloro che in fondo gioiscono nel vedere l’altro star male. Forse che le frustrazioni degli esseri umani siano a somma costante? Ci sarebbe poi chi vorrebbe far qualcosa ma non riesce. È un presente cosparso di una patina coprente così da rendere frustrante la ricerca di una sincerità che non si sa più dove trovare. Le euristiche ci inducono ad aspettarci regalità dietro la bellezza ma nobiltà d’animo non cambia nella storia, mentre i canoni estetici sì. E la patina torna a echeggiare come tema quale maschera, nella descrizione di una massa apatica di cloni che più avanti nel trionfo della razionalità ricorrono alla negazione della loro stessa insoddisfazione: «facciamo finta di essere felici». Questo, in un mondo dove è la pubblicità a pretendere di dirci chi siamo, cosa vogliamo, da cosa dobbiamo difenderci. Dinnanzi ad un mondo nuovo, frutto di convincimenti, sorgeranno nuovi bisogni, gli stessi per tutti (e tornano i cloni). Eppure non sappiamo nemmeno dove stiamo andando. Vince chi è più convincente? Ma l’oggetto del convincimento è nulla. Maschera, scatola vuota contenente aria. E i nuovi idoli divengono feticci. Un esempio? La laurea. Autoironia, questa? Non sarebbe nuova, in “Vestito zebrato”, dove ammiccanti sottigliezze spiccano anche nei temi più tristi come la perdita di un amico, che, «distratto», va via senza nemmeno avvisare.
È questa caratteristica della sensibilità della poetessa, quella che giunge a sottolineare opportuna distinzione tra abbraccio asfittico e spremi-dolore, che riesce a vedere oltre la superficie, a spogliare con gli occhi. Come una giraffa, che in virtù dell’altitudine vede in lontananza. A tal fine, dopo l’estinzione dei dinosauri, proprio questo animale detiene il primato ed è accomunabile alla Musumeci, insieme alla zebra – a rappresentanza della coesistenza dei contrari – e al canguro – per i lunghi balzi in avanti – (entrambi animali richiamati dal titolo della rubrica che l’Autrice cura dal mese di marzo c.a. su “Lunarionuovo”). In questa moltitudine di habitat, si ha l’illusione di poter afferrare, la virtù precorritrice di vedere ciò che non si può ancora avere, perché fuori da quella stanza (nido bolla nuvola rosa) la realtà è un’altra. Ma noi aggiungiamo “ancora”, perché se lei vede prima degli altri, il suo destino è quello di attendere di più, non di attendere per sempre. Nell’attesa lei si sarà avvicinata al temperamento di un altro animale, il leone, ma in fondo sarà un peluche. Le resterà un cassandrico “te l’avevo detto”, quando un giorno affioreranno concatenazioni logiche che aveva già scorto, lei, sotto la punta dell’iceberg.
Giulia Sottile